23/10/13

Dealer

(Benedek Fliegauf, Ungheria 2004) 
Con Felícián Keresztes, Barbara Thurzó, Lajos Szakács, Anikó Szigeti, Edina Balogh, Dr. Dusán Vitanovics, Katalin Mészáros .



Dealer
Deal 
Dead

…"Se è fortunata, tra un paio di giorni ne esce"…
"E se non è fortunata?"
"Ne esce prima."

Nell'insondabile esplorazione del vuoto, nell'ovatta che circonda il pianeta alieno in cui il Dealer si muove, il terreno vibra. L'aria vibra. pulsazioni elettroniche extradiegetiche, onnipresenti, ossessive. Una camera che ruota lentamente, scruta lo spazio vitale in cui si consuma la stasi. Irreversible al cloroformio, notte dei vivi morenti. in un presente il cui tempo galleggia sotto formalina respirano carcasse umane come in un'apocalisse post-romeriana, detriti di umanità inghiottiti da spazi- sepolcri ("Questa non è la sua tomba. La sua tomba è al cimitero." … "Ma tua madre non è li. Lei è qui").

Tutti partecipano al pasto nudo tranne il Dealer, il cui sangue è nuovamente pulito. Lui si limita a caracollare da un disagio umano all’ altro; è il collante che lega i superstiti di questa fine del mondo. Come in Clean, Shaven dell'americano Lodge Kerrigan, i suoni si impregnano di riverberi nervosi, amplificazioni realistiche che definiscono un'estetica .
E' un'opera altamente funerea l'opus n°2 di Benedek Fliegauf. Una processione di 136 minuti sospesa su di uno stato di perenne dormiveglia, un limbo in cui realtà e sogno tendono a confondersi reciprocamente. Ma è anche l'opera di un ragazzo dotato di una personalità tale da saper piegare la forma ai tempi sedati del racconto, capace di lasciar fluttuare gli interpreti nello spazio dell'inquadratura e di trascinarli da un'ellissi all'altra plasmando semplicemente quei confini. Schiacciandoli, muovendo aria al loro interno.
L'evidenza è che la dimensione di Dealer non appartiene al nostro presente. non è possibile che vi appartenga. E' palese, necessario (credere) che qualcosa sia accaduto alla terra, che quell'intestino di città sia situato in un altroquando  dagli ingranaggi difettosi. Emblematica in questa chiave di lettura una sequenza dagli echi metafisici: il protagonista percorre una strada di periferia deserta (quasi tutti i luoghi del film sono privi di anime, del resto) e durante il tragitto, in una delle due corsie, un uomo prende a martellate il parabrezza di un'auto in sosta. Lo fa da sopra il tettuccio. Siamo ben oltre l'effetto straniante; l'azione è ripetuta meccanicamente, senza urgenza. Un automa avulso dal contesto ma al tempo stesso parte integrante della scenografia. Del resto, anche il più recente (e dolorosissimo) Womb, situa le vicende in uno spazio-temporale di altra natura, esplicandolo tuttavia palesemente. In Dealer lo si può intuire (azzardare?)  osservando la deriva di una società che pare sopravvissuta ad un' invasione di morti (ancora, non a caso, riferimenti alla saga di Romero), e ciò che resta è il frutto della resistenza: pochi sparuti individui malati e tossici. Ed è qui che risiede lo scarto narrativo più interessante: La droga non è un accessorio di cui si mostrano le conseguenze per chi ne abusa; è uno stato esistenziale, un anestetico dalla natura quasi genetica. Come se la nuova razza ne avesse sviluppato geni propri. In quest' ottica aberrante, il Dealer diventa dispensatore di vita anziché di morte; un angelo ambiguo, sottilmente utile al sostentamento di ciascuno. Questa condizione ontologica genera forse l'incapacità di provare disprezzo nei suoi confronti e gli conferisce un barlume di umanità in grado di accendere una flebile speranza nello spettatore.
Ma l'opera torna ad soffocare i bagliori riflettendo sulla pericolosa deriva della psiche umana raggiunto il punto di rottura: la corda tesa nel vuoto su cui il protagonista cammina passo dopo passo si spezza dopo la frase di una bambina, detta a bruciapelo. Nell'economia narrativa, una battuta apparentemente di raccordo; nelle conseguenze della storia, la definitiva spinta verso il baratro, il punto di non ritorno. Le conseguenze si sviluppano tuttavia con naturalezza, senza strappi, perfettamente in linea con i toni narcotizzati dell'opera: la scelta lancinante è un incredibile svolta che si consuma in silenzio. A noi resta solo il vuoto di una debole luce che si allontana sempre più, fino al totale blackout.

(Saggio realizzato per il catalogo 2013 del Lucca Film Festival)
 

12/10/13

Ok.
Avrei aperto un sito/portfolio che mi riguarda.
Questo mi permette teoricamente di spogliare il blog da questa veste scomoda e restituirgli la funzione per cui è nato: un contenitore di "recensioni cinematografiche illustrate".
Stiamo a vedere che succede.
Ah, il sito è qui:

www.cargocollective.com/francescogiani

29/07/13

Snowtown

(Justin Kurzel, Australia 2011) 
Con Daniel Henshall, Louise Harris, Lucas Pittaway, Bob Adriaens, Matthew Howard.




Justin Kurzel, regista di Snowtown, ha studiato. Materia: tecniche di soffocamento spettatori e teoria dei colpi bassi fuori campo. Snowtown è un piccolo film che toglie progressivamente aria dai polmoni. Non mozza il fiato; ti lascia piano piano a secco. La storia è semplice: in un paese di provincia nel sud dell'Australia, Snowtown, non succede un benamato niente. Almeno, all'apparenza; dietro le mura domestiche si consumano abusi, si covano perversioni e pregiudizi, ma l'abitudine è lavare i panni sporchi in casa propria. Poi arriva John Bunting; è un tizio paffutello, dall'aria gentile e rassicurante, e decide di prendersi cura proprio della "famiglia" protagonista del film (3 fratelli e una madre con qualche problema di troppo). John è uno psicopatico antisemita con spiccata propensione alle torture efferate e all'occultamento cadaveri, ma questo lo scopriremo in un secondo momento, così come il giovane Jamie che suo malgrado finirà per essere prima spettatore poi complice dei crimini di John. 
Ispirato alle gesta dell'omonimo serial killer dell'omonima cittadina australiana, Snowtown vive di tensioni sul punto di ebollizione ma ha la vecchia e risaputa saggezza di colpire allo stomaco in poche e mirate circostanze, preferendo nell'insieme uno sguardo obliquo e decentrato. Pur essendo così abusato il concetto dell'efficacia del fuori campo cruento (al punto da diventare quasi un luogo comune), è innegabile che nell'era del dettaglio anatomico in via di frantumazione l'approccio risulti insolito ed apprezzabile, soprattutto se di fatto contribuisce ad incollarti addosso col mastice tutto lo sporco suggerito.
Ah; l'illustrazione coglie un attimo di profondo disagio consumato in silenzio in un luogo significativo del film: il cesso di casa. Ultimamente, il cinema mi trasporta in "luoghi" che parlano ed interagiscono con me più di quanto vi riescano storie-personaggi; così come Rob Zombie mi ha regalato un corridoio per babau, Snowtown mi racconta lucidamente che un bagno può essere un bicromatico raccoglitore di sporcizia: tattile (rossa) e psicologica (blu).
Guardatelo, via.


20/06/13

Only God Forgives

(Nicolas Winding Refn, Francia-Danimarca 2013) 
Con Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Yayaying Rhatha Phongam, Vithaya Pansringarm.


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Due tra i pericoli più grandi dello spettatore zelante sono riassumibili nella nascita, per un motivo od un altro, di due sentimenti: aspettativa e pregiudizio.
Mi piace il festival di Cannes. Mi piace perchè è un coacervo di contraddizioni al cui interno si può pescare veramente di tutto. Anche tanta, tanta qualità, tra l'altro.  

Cannes, Only God forgives = aspettativa. Fischi a Nicholas Winding Refn dopo la proiezione per la stampa, recensioni pesantemente negative = pregiudizio pronto e servito.
Adesso correte sul sito de "gli Spietati" (http://www.spietati.it/) e andate a leggervi l'illuminante recensione-fiume di Alessandro Baratti, oppure accontentatevi del mio perentorio giudizio: opera straordinaria, dalla densità oleosa color rosso-blu shock che annega i corpi degli attori e le pupille dello spettatore per restituire alla superficie un involucro vergine, pronto ad un nuovo “uso”. Alla faccia di pregiudizio e aspettativa.


04/06/13

Coinvolto dal progetto Omini stecco (https://www.facebook.com/pages/Omini-stecco/140818116109358?fref=ts), ho lasciato decantare l'idea di un'illustrazione-recensione che mi sta a cuore: Only God forgives di Nicholas Winding Refn. Domani pomeriggio finalmente metto di nuovo mano ai pennelli.
Sono gia elettrizzato.

24/05/13

Lords of Salem

(Rob Zombie, USA 2012) 
Con Sheri Moon Zombie, Bruce Davison, Jeff Daniel Phillips, Meg Foster




Nel disperato tentativo di trovare una chiave critica all'ultima opera di Rob Zombie, ho perso di vista una cosa fondamentale: il potere della suggestione. Posso per certo dire che un elemento scenografico mi ha attraversato i neuroni con la stessa semplicità con cui un trapano attraverserebbe un muro di zucchero filato: il corridoio al piano dell'appartamento di Heidi (una Sheri Moon scheletrica e dondolante che qualcuno trova sexy in un film in cui regge l'anima con i denti). E più mi sforzavo di razionalizzare le mie emozioni, più quell'immagine mi tormentava disperdendo nell'aria i miei sforzi. Allora ho preso una decisione: niente analisi, niente "recensione"; solo la constatazione di aver assistito ad un film brutto-bello, ridicolo-ironico, ricco di trovate sbilenche dirette in modo sbilenco su di una sceneggiatura sbilenca e su di un corridoio che da solo vale gli 8 euro di biglietto. Canalizzatore di orrori ancestrali, memore di mille fratelli e di un padre ingombrante (che presta la schiena al triciclo di Danny e si fa la doccia nel sangue), è lui il vero protagonista. 
Capolavoro. No, non lo è. Si, lo è.
Boh.
Grandissimo corridoio. 

03/05/13

WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS - WORK IN PROGRESS 

Sto lavorandondo al blog! adesso è decisamente incompleto, con formattazioni da sistemare e diverse altre cose da rivedere...sarà pronto a brevissimo!!!

29/04/13

Wrath of Jesus

 



Perchè da lassù, almeno un momentino ino ino ci avrà odiati tutti...o no????

06/02/13

Shane Meadows - This is Shane

 





Immagine per la Cover della monografia di Shane Meadows a cura di Stefano Giorgi e Andrea Bernardini per le Edizioni "Il Foglio Letterario". La prima immagine (partendo dal basso) è realizzata a tempera acrilica su cartoncino ruvido; la seconda in alto è una rielaborazione della prima tramite leggero compositing fotografico Photoshop.

04/02/13

Movie # 1 - Night of the dying alive

 




10 minuti. Found footage:  una selezione di morti banali, semplici, "quotidiane", nell'universo cinematografico di Hollywood. "La notte dei vivi morenti"; ovvero il nuovo progetto del talento underground Rob Georgero, già autore di opere controverse quali "Sabato 14" e "In apnea"...

Georgero, ormai, lo conosciamo. Autore "furbo", dotato di una certa cultura cinefila, assiduo frequentatore dei salotti festivalieri nonchè sincero estimatore del cinema sperimentale di autori quali Tscherkassky, Kubelka, Snow. Fino a qui, tutto chiaro.
Quando tuttavia ci si trova di fronte ad un prodotto come questo "Night of the dying Alive", viene spontaneo chiedersi con quale metro di giudizio sia più giusto esprimersi. Non è una novità; alla cerebrale e metaforica inquietudine buffonesca di "sabato 14" la nostra reazione fu la medesima, e pare che volenti o nolenti la cifra stilistica di Georgero si stia delineando con una certa prepotenza.
Morti. Banali morti, un collage di dipartite più o meno insignificanti tratte dai più svariati film della storia del cinema Hollywoodiano, semplicemente montate in sequenza selvaggia, senza una cronologia o un fil rouge come collante. Una non-narrazione, minimale e cinefila (forse è il caso di definirla "cine-maniaca"), che tuttavia acquista un' innegabile valenza anarchica nella sua ostinata rappresentazione del "banale" nel contesto "straordinario" in cui è inserita. Una provocazione forse intelligente, probabilmente radical chic, sicuramente discutibile.
A noi Georgero non dispiace, lo dobbiamo ammettere; ma aspettiamo che la sua verve creativa e politicamente scorretta trovi un indirizzo che non lasci adito a questi fastidiosi dubbi di "paraculaggine retroattiva", giusto per non avere peli sulla lingua.